Casale del Giglio
di Alessio Pietrobattista
Signore e signori, il Mostro: ho assaggiato Casale del Giglio (pensando a Jonathan Nossiter)
Ero lì tranquillo che mi godevo il putiferio scatenato da Nossiter, suicciando felice tra ristoratori Dissaporiani incazzati e polemiche Intraviniche sulle bottiglie tossiche quando, improvvisa, la chat di Facebook emette un sinistro pop: “ci serve una degu di Casale del Giglio e subito”. Il messaggio non ammette repliche e quando Intravino ti affida una missione, l’unica domanda che devi farti è: dove trovo le bottiglie? Facile: nel supermercato vicino casa non mancano quasi mai. Peccato che questo sia in un centro commerciale e sotto i saldi: due chilometri di corsie per arrivare a uno scaffale triste e vuoto. Altro supermercato in zona, stessa storia: ma che ve li siete bevuti tutti?!? Mi informo su internet, giro un po’ di enoteche e finalmente riesco a reperire quella che reputo una selezione abbastanza rappresentativa dell’azienda. Eccola qui in foto, corredata dall’elegante sputacchiera (ehm, scusate ma a casa non abbiamo questo vizio).
Si parte: tenterò di essere il più distaccato e soggettivamente oggettivo possibile (darò pure i voti, incredibile).
Satrico 2010 (Chardonnay, Sauvignon, Trebbiano giallo in parti uguali): il top of the pops dei vini bianchi. Giallo paglierino e olfatto che richiama nettamente il fruttato-erbaceo del Sauvignon: pesca bianca, salvia, melone invernale e tarassaco. Naso tutto sommato piacevole, dove lo Chardonnay e il Trebbiano Giallo fanno sommessamente da dolci comprimari. Bocca beverina con il Sauvignon ancora in evidenza, non particolarmente interessante ma di discreta facilità. L’alcool scappa un po’ rispetto alla struttura del vino. Gli piace vincere facile. p. 75 (euro 4,60)
Petit Manseng 2010: uno degli ultimi nati tra i bianchi della casa, da un’uva semi-sconosciuta del sud-ovest franzoso. Si dice che insieme al Viogner sia ormai lanciatissimo alla conquista del nuovo mondo… potevamo farcelo scappare? Colore dorato, naso che ricorda nei toni dolci il compagno di conquiste: mela gialla, ananas e papaya di primo impatto, poi crema di nocciola, florealità gialla e toni cerealicoli. E’ giallissimo anche in bocca, di discreta struttura e buona integrazione dell’alcool. Non fa malolattica (altrimenti svaccherebbe) e la beva, non lunghissima, ne guadagna. Mi ricorda alcune Falanghine flegree ma con minor slancio acido. Ma ‘sto Petit Manseng, ce serve o non ce serve? p. 74 (euro 9,50)
Antinoo 2009 (66% Chardonnay, 33% Viogner): è il bianco di punta, non ci sono dubbi e, come spesso accade, l’affinamento in legno diventa istituzionale (misto Tonneau e Barriques). Colore dorato lucente e naso incipriato e imbellettato: la vaniglia prima di tutto, con una spolverata di zucchero a velo, banana e pera matura, cera d’api e ginestra. Bocca confortevole, morbida, calda, dove l’acidità se ne sta in disparte per lasciar spazio ai toni avvolgenti e vanigliosi del legno, per la verità mai tostati. Con uno sprint acido in più potrebbe risultare più dinamico. Soft, molto soft, pure troppo. p. 76 (euro 9,50)
Merlot 2009: si poteva rinunciare al vitigno-piacione per antonomasia? Giammai! Colore rubino intenso, quasi vinoso come conferma l’olfatto sui toni della frutta fresca, ribes e melograno a cui presto si affiancano toni verdi evidenti, con una interessante pepatura di sottofondo. La bocca conferma la vinosità del frutto, in un contesto di buona freschezza. Per sgamare il vino più piacione del lotto in realtà mi sono trovato finora quello con maggiore freschezza, malgrado alla fine risulti un po’ “piccolo”, per via di una sensazione di diluizione e il frutto tendenzialmente dolce. Sensazione di calore? Zero. Sensazione legnosa? Poca, se non in bocca con le dolcezze rimarcate. Da un base ci può stare, si beve senza troppi pensieri. p. 76 (euro 6,00)
Madreselva 2008 (Merlot, Cabernet e Petit Verdot in parti uguali): uno dei due top di gamma per i rossi con un classico mix bordolese. Un punto di colore più cupo del precedente e un olfatto più complesso: al classico spunto di bollitura di fagioli del Petit Verdot (ho testimoni a riguardo sulla mia sensibilità a questo sentore), spuntano inaspettati dei toni sevatici a sparigliare un quadro che altrimenti vedrebbe primeggiare il classico fruttato misto di bosco e i toni verdi, lievemente tendenti al classico peperone arrostito tipico dei bordolesi della costa. La bocca è compatta e tannica, non banale anche se l’astringenza da legno e la sensazione alcolica si fanno sentire con l’innalzarsi della temperatura. A circa 12-13 euro in enoteca si fa un figurone con amici non troppo esigenti. p. 80 (euro 13,50)
Mater Matuta 2008 (Syrah 85%, Petit Verdot 15%): signori e signore, ecco il top: sua maestà Mater Matuta. Pluricinquegrappolato nella sua storia e sempre ben considerato dalla critica del settore. Uno dei rossi più premiati del Lazio. Iniziamo: il colore è simile al Madreselva, al naso la bollitura di cui sopra fa capolino ma è la nota selvatica del Syrah a prevalere. La pepatura è evidente, scura come anche il frutto più tendente alla prugna e al gelso nero. La tostatura c’è, anche in bocca dove prevalgono i toni dolci della frutta e del rovere. La sensazione di compattezza è evidente, l’astringenza del tannino da legno pure. Vino che mostra e dimostra, quasi un esercizio di stile, nato per stupire chi si avvicina al club del gomito alzato. Più strutturato del Madreselva, più caldo e più di impatto ma se dovessi valutare il q/p sceglierei il fratellino (che costa quasi la metà). p. 82 (euro 24,20)
I vini di Casale del Giglio li frequentavo nel passato, quando la mia prima bevuta di uno Shiraz (guarda un po’) mi avvicinò a questo mondo. Approfondii l’azienda, erano vini che mi piacevano e cercavo con convinzione. Questi assaggi sono stati un divertente flash-back che m’hanno riportato a quando ero curioso come una scimmia. La curiosità, che ancora mi anima, m’ha portato ad apprezzare altro ma vedo che in quei lidi poco o nulla è cambiato, quasi che ci si sia specializzati in ingegneria enologica. Staticità? Sì, ma potrebbe essere associata all’affidabilità per l’enoprincipiante, alla certezza di trovare ciò che si cerca. Territorialità? No o perlomeno senza una storia lunga alle spalle è quasi impossibile parlarne. Personalità? Per me no, ce n’è poca. Tossicità? Spero e credo di no. Ecocompatibilità? Il termine che usano in azienda può essere discutibile, ci mancherebbe. Quello che è indiscutibile è che nelle etichette questo aspetto non è minimamente accennato. Quindi in che modo confondono “chi non è informato”? Chi sa parli.
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